venerdì 2 ottobre 2015

News dalla Libreria #16 Fino alla fine della rete e Yosemite Clark

Buona giornata, quando degli autori emergenti italiani si rivolgono a noi per trovare una vetrina nel mondo letterario non possiamo fare altro che accettare, e spesso, ci sorprende l'universo letterario che questi autori riescono a costruire. Così voglio lasciare al vostro parere queste due News dalla Libreria.



FINO ALLA FINE DELLA RETE
di R.V. Beta

casa editrice: Self publishing
PAGINE: 255
PREZZO: 2,99 €
store online: amazon.it

Sinossi
Yuuki è una ragazza scappata di casa per vivere sulla propria pelle un’irrefrenabile curiosità per la vita e la tecnologia.
La sua ultima impresa di pirateria informatica l’ha riportata bruscamente dal mondo virtuale a quello reale, e ora è un obiettivo. Daisuke è dotato di una fervida immaginazione, con la quale sconfigge le noiose giornate da impiegato di una multinazionale.Qualcosa di speciale unisce Yuuki e Daisuke nella fuga che affronteranno insieme -- o almeno così è come la vede lui!


L'AUTRICE DICE DI SE
Mi chiamo (se ci credete a questa storia) R.V. Beta.Secoli fa facevo da balia a un Tamagotchi non mio, e non so perché tendevo a trattarlo male: ho ancora i sensi di colpa.Mi immagino di entrare un giorno in un negozio di elettrodomestici e tutte le televisioni mi salutano facendo il mio nome.


YOSEMITE CLARK
di Lea

casa editrice: Self publishing
PREZZO: 10,23 
PAGINE: 172
store online: QUI

SINOSSI
Yosemite Clark vive in un mondo in cui i difetti vengono apprezzati ed elogiati. Durante la cerimonia di diploma, riceve l'Etichetta, il difetto, il tratto particolare che lo distingue da ogni altra persona sulla faccia della Terra. Pur non essendo molto entusiasta del Difetto che gli viene attribuito, vive la sua vita normalmente, fino a che non viene rapito e il segreto viene svelato: Ysemite ha un fratello gemello, anche se non sa cosa significa la parola. La società, avendo come obiettivo persone l'una differente dall'altra, vieta categoricamente la presenza dei cosiddetti "gemelli".Yosemite doveva essere soppresso alla nascita, ma i suoi genitori decisero di offrirgli un'opportunità, e lo diedero in adozione. Ma adesso lo reclamano. il suo gemello sta combattendo una cruenta battaglia politica per permettere alle persone Perfette di non vivere isolati dalla società. Ed affinché questo possa funzionare, nessuno deve sapere dell'esistenza di Yosemite, nessuno deve sapere che esistono persone uguali.

L'AUTRICE DICE DI SE
Ragazza che ama passare lunghe ore a leggere o a guardare serie televisive, stanca di vivere in un mondo che non può cambiare decide di darsi alla scrittura e crearsi tanti mondi a sua immagine e somiglianza.



COSA NE PENSANO LE CURLY HAIRED READERS?
Come possiamo non essere completamente attratte quando un'autrice emergente, e per di più italiana, si lancia in un romanzo distopico come Yosemite Clark? Siamo curiosissime di leggerlo! Lo consigliamo vivamente a tutti gli appassionati del genere!
Per quanto riguarda Fino alla fine della rete ci incuriosisce molto, soprattutto per il rapporto letteratura-tecnologia che instaura. Speriamo sia all'altezza delle nostre aspettative!



ESTRATTO DAL CAPITOLO 1
Io adoravo mia nonna. Era sempre stata una vecchietta arzilla e in gamba per la sua età. Era stata come un’amica per me. Il rapporto che avevo con lei lo consideravo speciale e unico nel suo genere. Abbiamo passato un sacco di bei momenti insieme.
Come quella volta che mi aiutò a chiedere di uscire ad una ragazza.
Eravamo al centro commerciale, era una calda mattina di inizio estate, e nonna insistette per andare a comprare la frutta fresca.
 Stavamo tranquillamente camminando quando notai una ragazza non troppo lontana da noi che stava parlando con delle sue amiche. Aveva il naso a patata e le lentiggini sparse su tutta la faccia.
Detti un colpo col braccio a mia nonna, e le indicai la ragazza con un cenno del capo. Lei la guardò  con fare malizioso e mi strizzò l’occhio, sapeva già cosa doveva fare, non c’era bisogno nemmeno di dirglielo. Era un giochetto che facevamo sempre, e ci divertiva un mondo.
 Si avvicinò a lei e al suo gruppo di amiche. Aveva una camminata ondeggiante, oscillava da destra verso sinistra. Quando le fu vicina fece finta di inciampare, e cadde fra le braccia della ragazza, la quale ovviamente la sorresse.
<<Signora, sta bene?>> le chiese con fare allarmato.
<<Ma certo>> rispose mia nonna staccandosi dal suo corpo. Si stirò le pieghe della gonna. <<Adesso, se vuoi scusarmi, devo andare dalle mie amichette. Dobbiamo farci belle per la festa di stasera.>>
La ragazza arricciò il suo naso a patata. <<Che festa?>>
Mia nonna la guardò sorpresa, con gli occhi spalancati. <<Ma come, tu non ci sarai stasera in discoteca? Eppure sono più grande di te solo di qualche anno!>>
<<Come qualche anno?>>
<<Esatto! Io ne ho diciotto, tu quanti ne hai, mia cara?>>
La ragazza sembrava chiaramente turbata dalla donna che aveva davanti a lei, il suo disagio era evidente. Tutto secondo i piani.
Così entrai in scena io. Mi avvicinai a loro correndo. <<Nonna, sei scappata di nuovo!>> Afferrai mia nonna per un braccio, cercando di riprodurre un tono di voce arrabbiato. Poi mi rivolsi alla ragazza. <<Scusami tanto, a mia nonna manca qualche rotella, e avvolte non riesco a starle dietro.>>
<<E’ proprio un bravo ragazzo>> intervenne la vecchietta. <<Mi sta sempre dietro con fare apprensivo. È così premuroso! Non dovresti lasciartelo scappare.>>
A quel punto le amiche della ragazza la chiamarono, dovevano andarsene. Lei frugò nella borsa in cerca di qualcosa. Estrasse un pezzo di carta e me lo porse sorridendo timidamente:
<<Questo è il mio numero, chiamami qualche volta.>>
Poi si girò, e corse dalle sue amiche, le quali cominciarono a farle un sacco di domande. Lei probabilmente le raccontò tutto l’accaduto, visto che si voltarono parecchie volte a guardarmi.
<<Mi devi un favore>> disse seria mia nonna squadrandomi dal basso verso l’alto.
<<Te ne devo un milione.>>
Mi prese sotto braccio, ed insieme, ci incamminammo verso l’uscita del centro commerciale.
<<Adesso muoviamoci, oggi è il grande giorno.>>
Annuii soltanto, troppo emozionato per pronunciare qualunque tipo di parola. Quel girono mi sarei diplomato, mancava davvero poco ormai. Dopo quattro anni il liceo stava per finire. Non mi ci ero trovato tanto male, l’avevo odiato nella giusta misura in cui uno studente medio odia la scuola. Ad ogni modo ero felice di andarmene al college. Ero stato ammesso alla facoltà di medicina, e non vedevo l’ora di iniziarla. Non stavo più nella pelle all’idea di avere la tanto attesa libertà.
La nostra andatura aumentò sempre di più, e rientrammo a casa in tempo per la colazione. Da fuori riuscivo a sentire l’odore delle frittelle, e mi venne un languirono in bocca.
Entrammo dalla porta sul retro e ci ritrovammo in cucina. Mio padre era seduto al tavolino a leggere il giornale, e mia madre ai fornelli, la quale non appena sentì il rumore della porta che si apriva, si voltò a guardarmi con un enorme sorriso. Posò il piatto di frittelle in mano e mi si avvicinò, mi mise le mani sulle spalle, e mi abbracciò forte.
<<Ciao Yosemite! Allora, sei emozionato?>>
<<Ovvio che lo è>> rispose mio padre per me. <<Dopotutto gli addebiteranno il Difetto questo pomeriggio.>>
Eh già, ad ogni alunno, raggiunta la maggiore età e di conseguenza il diploma scolastico, durante la cerimonia di diplomi viene assegnato il proprio Difetto, il proprio tratto caratteristico che lo contraddistingue da tutti gli altri. Il Difetto può essere caratteriale, fisico o mentale. Più il Difetto è esplicito ed evidente, più puoi aspirare ad ottenere ottimi traguardi nella vita. Questa decisione fu presa moltissimo tempo fa, il nonno del mio bisnonno non era nemmeno ancora nato. Prima di questa nuova Era le persone venivano giudicate perché non conformi alla massa. Gli omosessuali, le persone di colore, gli stranieri, chi credeva in una diversa religione, venivano considerati la feccia, e trattati come immondizia. Erano costretti a vivere una vita ricca di derisioni, umiliazioni, si sentivano inferiori agli altri, non certo perché lo fossero, ma perché venivano portati a crederlo. Se non eri come gli altri dicevano che tu dovevi essere, allora potevi scordarti di assaporare la felicità. Fortunatamente il mondo è cambiato da allora, le persone si sono rese conto dei proprio errori e ci hanno posto rimedio. Adesso essere diversi è un dono, avere diversità è un miracolo.
Io non sapevo che Difetto mi avrebbero potuto assegnare. Spesso mi guardavo allo specchio ma non notavo niente di particolare. Scrollai le spalle, non era compito mio decidermi il Difetto, ma dei miei professori, i quali mi avevano osservato per quattro anni.
Mia madre mi diede una scrollata alla spalla, facendomi tornare alla realtà. <<Tesoro, non devi essere nervoso, ci siamo passati tutti.>>
Mia mamma aveva delle orecchie enormi, molto più grosse del suo naso. Il suo Difetto era Dumbo, mia madre si chiamava Jenna Dumbo. Era molto fiera del Difetto che le avevano assegnato, infatti portava sempre una coda di cavallo, o comunque un’acconciatura che le lasciava il collo e le orecchie scoperte. In più si metteva degli enormi orecchini vistosi, diceva che in questo modo l’attenzione si concentrava di più sulle orecchie.
Le sorrido e mi metto a sedere. <<Hai ragione mamma, ma rimane comunque il giorno più importante della mia vita. Papà, mi passeresti il sale per favore?>>
Mio padre era un grande imbranato, non riusciva a tenere un oggetto in mano per più di due minuti che gli crollava per la terra. Inciampava sempre e sbatteva contro gli spigoli dei mobili. Non aveva problemi di vista, era semplicemente più sbadato rispetto alle altre persone. Un giorno mamma ebbe un’accesa discussione con il sindaco. Lei voleva mettere dei rinforzi in gomma piuma agli spigoli del tavolo, essendo un periodo stressante per papà, cosa che lo rendeva ancora più distratto e impacciato. Ma il sindaco negò l’approvazione senza pensarci su due volte. Disse che non sarebbe stato giusto nei confronti del Difetto di mio padre minimizzarlo in questo modo. Ma io so che mamma lo faceva solo a fin di bene.
Mio padre mi mise quattro frittelle nel piatto, e mi versò il succo di frutta nel bicchiere. <<Ricordo ancora il mio giorno di diploma, ero nervoso come non mai. E indovina un po’? mentre camminavo verso il palco dove mi avrebbero diplomato inciampai e mi ruppi il naso!>>
Scoppiai a ridere, potevo immaginarmelo nella mia testa che si pestava le stringhe e capitombolava per la terra.
 Mamma era piegata in due dalle risate:
<<Me lo ricordo! Dovette correre subito al pronto soccorso, e il Difetto gli fu assegnato due giorni dopo rispetto agli altri alunni.>>
Mia nonna, la quale era seduta accanto a papà, gli diede qualche pacca sulla spalla. Poi allungò una mano e mi fregò una frittella.
<<Il tuo Difetto è che non sei abbastanza sveglio!>> mi rimproverò, mentre si sgranocchiava soddisfatta la sua colazione.
<<Lascialo in pace mamma, è già stressato di suo>> la ammonì mio padre.
Mamma tornò in cucina, non mi ero nemmeno accorto che se ne fosse andata, con in mano la mia tunica rossa da diplomando. Corse verso di me con il vestito sempre nel cellofan, e me lo agitò davanti agli occhi.
<<Avanti tesoro, è il momento che tu lo indossi.>>
Presi il cellofan dalle braccia di mamma, lo appoggiai sul tavolo e provai ad aprirlo. Papà corse in camera sua a prendere la giacca e la cravatta. Tornò in cucina e si mise davanti allo specchio. Legò la stoffa intorno al collo, e provò a farci il nodo, senza ovviamente riuscirci.
Mamma, che aveva in una mano un rossetto e nell’altra uno specchietto da borsa, alzò gli occhi al cielo non appena vide il disastro che stava combinando mio padre, e posò i trucchi sul tavolo.
<<Imparerai mai a farti il nodo alla cravatta?>> sbottò avvicinandosi a lui.
<<E tu smetterai mai di indossare quegli orecchini che pesano più di te?>>
Anche se le discussioni sono all’ordine del giorno, siamo sempre stati una famiglia felice. Da quando il nonno morì, nonna era venuta a vivere con noi, ed è una delle cose migliori che ci potesse capitare. Non era mai stata un peso o un obbligo, anzi, ci aveva sempre aiutati nei momenti di crisi.
Anche alle famiglie viene assegnato un Difetto. Noi siamo la famiglia Monopoli, perché ogni domenica sera, cascasse il mondo, noi siamo riuniti al tavolino a giocare a quel gioco da tavola. Spesso urliamo e ci infamiamo, quando entrambi crediamo di avere ragione, e questo porta molto spesso lamentele da parte dei vicini. Quando un giorno avrei moglie e figli anche noi saremmo stati una famiglia, e ci avrebbero assegnato un Difetto a seconda delle nostre abitudini.
Mi infilai la tunica rossa e anche il cappello in testa.
<<Tutto questo è imbarazzante>> sospirai verso mia nonna, la quale si stava avvicinando a me.
<<Guarda che il cordino lo devi mettere a destra.>>
Lo spostai e poi mi voltai verso i miei genitori. La diatriba per la cravatta si era ufficialmente conclusa, ed entrambi si avvicinarono a me, sorridendomi.
<<Siamo orgogliosi di te, lo sai questo?>> chiese mia mamma.
<<Esatto. Non importa quale Difetto ti assegneranno, per noi sarai sempre il nostro amato figlio.>>
<<Oh, vi prego, risparmiatemi questi discorsi melensi!>>
<<Assolutamente no.>> Papà scosse la testa. <<E quando avrai dei figli, anche tu farai i cosiddetti “discorsi melensi”>>
Prese dal piano cottura un mazzo di chiavi e aprì la porta sul retro. La nonna e la mamma furono le prime ad uscire, poi fu il mio turno.
<<Scordatelo papà, io non lo farò mai>> ribattei.
Mio padre si avvicinò allo sportello del guidatore e lo aprì. <<Ne riparleremo più avanti, figliolo.>>
Salii al posto del passeggero, mi allacciai la cintura, e mentre mio padre guidava verso la scuola, assaporai i miei ultimi istanti di adolescenza. Nel giro di poche ore tutto sarebbe cambiato, il liceo sarebbe finito, io avrei avuto il mio Difetto, e alla fine dell’estate me ne sarei andato alla facoltà di medicina. Tutto mi sembrava così nuovo ed eccitante.

Arrivammo a scuola, che era appestata di madri, padri, parenti e diplomandi. C’era chi piangeva, chi si abbracciava con le proprie amiche del cuore, chi scattava foto ricordo.
<<Facciamone una anche noi!>> gridò mamma non appena vide un’altra famiglia davanti all’obbiettivo.
Quella volta io non fui il solo ad alzare gli occhi al cielo, anche mio padre si trovò d’accordo con me.
<<Andiamo Jenna, guarda in che condizioni sono!>>
<<Tu sei sempre in pessimo stato>> ribatté mia nonna, abbottonandosi il cardigan. <<Ma Yosemite non sarà mai più vestito in questo modo, perciò dobbiamo immortalare il momento.>>
Girai la testa e mi affacciai verso i sedili posteriori. <<Non è vero nonna, ne indosserò uno simile alla laurea.>>
Papà parcheggiò la macchina, e le donne della famiglia ci trascinarono vicino al fotografo. La mia espressione contrariata era più che evidente.
Nonna insistette per fare una marea di foto, sembrava volesse appenderle per tutta la città, o fare un servizio fotografico per una campagna pubblicitaria. Ad un certo punto il fotografo si stancò di noi e ci cacciò via, mia madre ebbe pure da obiettare. Guardammo le foto che avevamo scattato, a me sembravano tutte uguali, ma mamma era convinta di trovarci delle differenze abissali.
<<Avanti, tesoro>> mi esortò. <<Firmacele.>>
<<Ma non si dovrebbero firmare solo gli annuari?>>
Lo sguardo minaccioso che mi lanciò mi fece zittire all’istante, così le presi la penna dalle mani e scrissi una dedica su ognuna delle foto.
La vicepreside finalmente arrivò, interrompendo tutti quei momenti mielosi in cui ti strizzano le guance e ti riempiono di complimenti su quanto tu sia cresciuto in quegli anni.
Ci avviammo nella palestra, dove si sarebbe tenuta la cerimonia di diplomi. Mi staccai dalla mia famiglia, e mi sedetti nelle prime file riservate ai maturandi accanto ai miei amici. Un po’ mi dispiaceva lasciarli, molti però sarebbero rimasti in città anche dopo l’estate, quindi avrei potuto vederli nei periodi in cui non avevo da studiare.
In palestra c’era un gran chiacchiericcio, gli studenti erano emozionatissimi e non facevano altro che tirare a indovinare quale Difetto li avrebbero assegnato, e i genitori nelle file più dietro discutevano su quanto i loro figli fossero meglio degli altri.
Poi entrarono la vicepreside e il preside, e tutti si chetarono. Il preside era una persona solare, con il colorito della pelle sempre abbronzato e gli occhi opachi. La vicepreside invece era un’acida donna che aveva sempre un atteggiamento risoluto.
Il preside si avvicinò al leggio, e avvicinò alla bocca il microfono:
<<Benvenuti, studenti e parenti del liceo McClain, vi do il benvenuto alla cerimonia dei diplomanti di quest’anno.>>
Un grido di gioia si levò tra le mamme nel pubblico.
<<E’ sempre un vero onore vedere i propri figli crescere e diventare adulti, ed è per me e per la vicepreside Rospo un piacere segnare il loro passaggio all’età adulta.>>
La vicepreside non si chiamava certo Rospo perché era una brutta donna, anzi aveva molti ammiratori, ma perché rispondeva sempre acidamente a chiunque.
<<Oggi i vostri figli riceveranno il loro Difetto, ciò che li diversifica, ciò che li rende speciali. Perché noi non accettiamo uguaglianza, né somiglianza, ognuno di noi deve essere unico nel suo genere. Ogni forma di auto conformismo verrà punita in modo imparziale.>>
Un giorno a scuola ci parlarono che un tempo esistevano movimenti unitari come le mode, cose che vennero spazzate via, poiché ogni persona deve avere il proprio gusto personale differente dagli altri, e nessuno può dirgli come si deve vestire. A scuola prendevano questa regola della diversità molto scrupolosamente, una volta espulsero due ragazzi per aver indossato la stessa maglietta lo stesso giorno. Mi dispiacque molto per loro.
<<Senza queste idee unitarie il mondo è un posto migliore. Ma mettiamo da parte questi discorsi inutili e passiamo subito alla cerimonia dei diplomi. Il primo nome sulla lista è Jorge, vieni avanti figliolo!>>
Sentii i parenti di Jorge applaudire con orgoglio. Non avevo mai fatto troppa amicizia con lui, ci eravamo semplicemente scambiati qualche parola qua e là ma nulla di ché, ad ogni modo mi sembrava un ragazzo simpatico.
Si alzò dalla sedia, si sistemò gli occhiali sul naso, e si avvicinò con andatura ondulante verso il palco. La tunica gli strusciava in terra, evidentemente i genitori avevano sbagliato ad ordinarla. Salì i gradini e si ritrovò sul palco. Si mise alla destra del preside, il quale ricevette dalla vicepreside Rospo una pergamena, rilegata da un fiocchetto rosso.
Quando la vide Jorge trattenne il fiato per qualche secondo, potevo capire la sua tensione, lì dentro c’era la parola che lo avrebbe definito per tutta la vita.
Il preside slegò il laccio rosso, e aprì la pergamena sempre di più, fino a che non fu totalmente distesa. Appena lesse il Difetto, fece una smorfia.
<<Prima ci terrei a farvi una premessa. Il vostro amico qui presente Jorge ha sempre amato con grande passione un cantante che va molto ultimamente, avete presente Paul?>>
La folla rispose con un segno di assenso.
<<Ebbene, questo ragazzo è un suo grande fan, forse il più grande. Perciò, è un onore per me informarvi che il Difetto di Jorge sarà Pauler!>>
Jorge si portò la mano davanti alla bocca, le lacrime agli occhi. Gli tremavano le ginocchia. Sbuffai, con un Difetto del genere avrebbe fatto strada nella vita. Tornassi indietro diventerei anch’io un enorme fan di un cantante o un attore qualsiasi a caso.
Jorge si avviò verso il centro del palco, sorridente, e si spostò il cordino da destra verso sinistra. Il preside gli si avvicinò con una lamina di ferro in mano. L’Etichetta. Una volta diplomato, e assegnato il Difetto, ti etichettavano, cioè ti cicatrizzavano sopra la pelle nome e Difetto, così che dovunque andassi tu potessi essere subito catalogato.
Jorge trattenne un’espressione dolorante mentre l’apparecchio incollava l’Etichetta sul suo polso sinistro. Poi si voltò verso il pubblico con un enorme sorriso. <<Sono Jorge Pauler, e sono fiero di esserlo!>>
Quella frase testimoniava che riconoscevi il tuo Difetto ufficialmente, e promettevi di impegnarti ad onorarlo per ogni giorno fino alla fine dei tuoi giorni.
I genitori saltavano sulle sedie, anche loro commossi dal proprio figlio. Mi rannicchiai nella sedia, avrei anch’io soddisfatto le esigenze dei miei parenti? O sarei stato un fallimento?
La cerimonia trascorreva lenta e monotona. All’inizio la tradizione del Difetto mi affascinava, ed ero curioso di sapere cosa sarebbe toccato ai miei compagni, ma dopo un po’ mi stufai. Volevo solo ricevere il mio attestato e tornarmene a casa, non ne potevo più della solarità del preside.
Ad un certo punto qualcosa catturò la mia attenzione. Il preside chiamò il nome di Tiffany. Quando sentii pronunciare il suo nome mi tirai su a sedere, e tirai il collo per vedere meglio. Tutta la platea in quel momento si zittì e rimase in ascolto di quello che sarebbe successo.
I suoi genitori si presero la mano, e con gli occhi chiusi, pregavano ogni forma di Dio per risparmiare la loro piccolina.
Tiffany era una ragazza alta, magra, bionda, con gli occhi azzurro cielo, qualche lentiggine sparsa per il viso, denti dritti, un naso piccolo, una bocca bellissima. Era Perfetta. Era questo il problema. Non aveva difetti, e, come sentivo sempre dire alla televisione “la perfezione è reato”.
Quando sentì il suo nome Tiffany sbiancò, e si avviò anche lei verso il palco tremante. Per la prima volta lessi nello sguardo della vicepreside un po’ di apprensione, la situazione era grave e tutti noi lo sapevamo. Se Tiffany fosse risultata inadempiente alle nostre leggi, e quindi una ragazza Perfetta, non si sarebbe mai diplomata, e sarebbe andata in una di quelle tante discariche dove vivono i reietti, e cioè tutti i Perfetti.
Il solo pensare a loro mi fece venire i brividi, non potevo immaginare di vivere nel loro corpo, di guardarmi allo specchio ogni giorno e non trovare nulla di sbagliato, sarebbe stato un incubo.
Tiffany stringeva forte i lembi della tunica, si mordicchiava con violenza il labbro, le si vedeva il sangue scendere sul mento.
Il preside prese l’attestato e sfilò il nastro rosso. La folla si zittì per qualche minuto, il tempo sembrò fermarsi. Il preside guardò l’attestato e sospirò: <<Mi dispiace molto…>>
A Tiffany tremarono le gambe, si accasciò in terra con le lacrime agli occhi. Si ficcò le mani tra i capelli e cominciò a tirarli, la faccia rossa e corrugata dal pianto, il labbro ormai spaccato dai morsi che ci si era data.
Urlava, sbraitava. Due guardie sortirono da dietro le quinte e si avvicinarono a lei, la quale però si gettò sul preside, e lo afferrò per il colletto.
<<La prego mi salvi, non lasci che mi accada questo!>> lo supplicò con la bava alla bocca, ma i due energumeni la caricarono di peso e la portarono oltre la palestra.
Non avrei più rivisto quella ragazza, la sua vita sarebbe stata condannata per sempre. Mi si gelò in sangue nelle vene, provai una gran pena per lei, mi sarebbe piaciuto poterla aiutare, ma sapevo che non sarebbe stato possibile.
Il preside si passò una mano sulla fronte, emotivamente provato. I genitori di Tiffany si stringevano l’uno all’altra, nel vano tentativo di consolarsi. Mia nonna allungò un braccio verso di loro e gli diede qualche pacca sulla spalla, in segno di conforto.
<<Mi dispiace molto per quella povera ragazza>> annunciò il preside, ancora scosso. <<Ma la cerimonia dei diplomi deve continuare, ci sono ancora un sacco di studenti da far salire qui sul palco. Il prossimo della lista è… Yosemite Clark!>>
Sì, ho un secondo nome, ero l’unico a scuola. Mia mamma voleva chiamarmi Yosemite, mio padre Clark. Litigarono per tutta la durata della gravidanza il nome del proprio figlio, e quando ormai ero nato, non essendosi ancora trovati d’accordo, mi diedero entrambi i nomi.
Gli sguardi di tutti si puntarono su di me, e io volli sparire. Non avevo ancora realizzato di essere a un passo dal momento più importante della mia vita, mi sembrava tutto così surreale, impossibile.
Deglutii e mi alzai dalla sedia. Nell’alzarmi voltai la testa verso le sedie dietro di me e vidi i miei parenti con un enorme sorriso che mi lanciavano segni di incoraggiamento.
Mi feci strada tra i ragazzi seduti nei posti accanto a me, tutti che mi dicevano qualche parolina di supporto, ma ciò non serviva a calmare il mio animo. La scena di Tiffany mi aveva terrorizzato. Ero certo di non essere un ragazzo Perfetto, ma il timore di fallire e deludere i miei montava sempre di più.
Salii sul palco con i pugni stretti. Mentre passai dietro al preside per andare alla sua destra, lui mi diede una pacca sulla spalla.
<<Non ti preoccupare>> disse solo a me, lontano dal microfono, perciò nessun altro sentì.
Divaricai leggermente le gambe e provai a guardare fisso davanti a me come mi avevano detto di fare, ma non ci riuscii, era più forte di me, io dovevo guardare cosa stava facendo il preside, perché ci mettesse così tanto a dirmi il mio Difetto.
Tolse il nastro rosso. Quel movimento mi sembrava fatto a rallentatore, come se il tempo non passasse mai. Picchiettai il piede contro il legno del palco, impaziente come non lo ero mai stato prima di allora.
Il preside finalmente lasciò cadere il nastro rosso a terra, poi aprì la pergamena e lesse. I miei occhi e la mia bocca si spalancarono, non ce la facevo più, tutta quella tensione mi stava uccidendo, avrei voluto urlare dal nervoso che avevo addosso.
Il preside distese la pergamena sul leggio, mi sporsi ma non riuscii a leggere niente. Dovetti ricompormi e aspettare.
<<Da questo momento in poi tu sarai per tutti Yosemite Clark… Secondo Nome!>>
Lo guardai sconcertato. Sul serio? Tutto qui? La cosa che mi differenziava da tutti gli altri, quella che doveva rendermi speciale, era semplicemente il mio secondo nome? Doveva essersi sbagliato, di sicuro c’era un errore, non potevano darmi un Difetto così banale e insulso.
Il preside mi porse la pergamena, e io quasi gliela strappai di mano. La aprii e la guardai. Nessuno errore, aveva letto bene. Mi venne voglia di strappare il foglio davanti a tutti, di mettermi ad urlare come aveva fatto Tiffany, ma non volevo dare spettacolo.  Così aspettai che il preside mi si avvicinasse per etichettarmi. Mi strinse la mano sinistra e girò il palmo verso l’alto. Ci appoggiò sopra la lamina di metallo, potevo vederla chiaramente: l’incisione era chiara, di una bella calligrafia.
Iniziai a farfugliare qualcosa, madido di sudore. <<Ci deve essere un errore, non potete darmi un->>
<<So che questa potrà sembrarti una tragedia>> mi disse accostando la sua bocca al mio orecchio, e il fatto di sentirlo per la prima volta in quattro anni serio e non gioviale mi fece trasalire. <<Ma qualche minuto fa una ragazza ha praticamente perso la sua vita, perciò pensa a chi sta peggio di te.>>
Dopodiché azionò la macchina e la passò sul bordo dell’Etichetta. Bruciava da morire, volevo allontanare il braccio ma lui aveva una presa estremamente forzuta.
 <<Sono Yosemite Clark Secondo Nome, e sono fiero di esserlo>> lo dissi con pochissimo entusiasmo, ma anche se mi sforzai, non riuscii ad esserne contento, non ero affatto fiero del mio Difetto.
Guardai i miei genitori e mia nonna. Sembravano contenti, questo mio grande fallimento non sembrava averli turbati poi più di tanto. O forse si stavano solo fingendo felici davanti agli altri.
Dopo di me si diplomarono un sacco di altri ragazzi, ma io non prestai attenzione, me ne rimasi seduto sulla sedia a pensare che cosa c’era di sbagliato in me. E mi venne in mente una lista lunghissima di cose.


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