FINO ALLA FINE DELLA RETE
di R.V. Betacasa editrice: Self publishing
PAGINE: 255
PREZZO: 2,99 €
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Sinossi
Yuuki è una ragazza scappata di casa per vivere sulla propria pelle un’irrefrenabile curiosità per la vita e la tecnologia.
La sua ultima impresa di pirateria informatica l’ha riportata bruscamente dal mondo virtuale a quello reale, e ora è un obiettivo. Daisuke è dotato di una fervida immaginazione, con la quale sconfigge le noiose giornate da impiegato di una multinazionale.Qualcosa di speciale unisce Yuuki e Daisuke nella fuga che affronteranno insieme -- o almeno così è come la vede lui!
Yuuki è una ragazza scappata di casa per vivere sulla propria pelle un’irrefrenabile curiosità per la vita e la tecnologia.
La sua ultima impresa di pirateria informatica l’ha riportata bruscamente dal mondo virtuale a quello reale, e ora è un obiettivo. Daisuke è dotato di una fervida immaginazione, con la quale sconfigge le noiose giornate da impiegato di una multinazionale.Qualcosa di speciale unisce Yuuki e Daisuke nella fuga che affronteranno insieme -- o almeno così è come la vede lui!
L'AUTRICE DICE DI SE
Mi chiamo (se ci credete a questa storia) R.V. Beta.Secoli fa facevo da balia a un Tamagotchi non mio, e non so perché tendevo a trattarlo male: ho ancora i sensi di colpa.Mi immagino di entrare un giorno in un negozio di elettrodomestici e tutte le televisioni mi salutano facendo il mio nome.
SINOSSI
Yosemite Clark vive in un mondo in cui i difetti vengono
apprezzati ed elogiati. Durante la cerimonia di diploma, riceve l'Etichetta, il
difetto, il tratto particolare che lo distingue da ogni altra persona sulla
faccia della Terra. Pur non essendo molto entusiasta del Difetto che gli viene
attribuito, vive la sua vita normalmente, fino a che non viene rapito e il
segreto viene svelato: Ysemite ha un fratello gemello, anche se non sa cosa
significa la parola. La società, avendo come obiettivo persone l'una differente
dall'altra, vieta categoricamente la presenza dei cosiddetti
"gemelli".Yosemite doveva essere soppresso alla nascita, ma i suoi
genitori decisero di offrirgli un'opportunità, e lo diedero in adozione. Ma adesso lo reclamano. il
suo gemello sta combattendo una cruenta battaglia politica per permettere alle
persone Perfette di non vivere isolati dalla società. Ed affinché questo possa funzionare, nessuno deve sapere
dell'esistenza di Yosemite, nessuno deve sapere
che esistono persone uguali.
L'AUTRICE DICE DI SE
Ragazza che ama passare lunghe ore a leggere o a guardare serie televisive, stanca di vivere in un mondo che non può cambiare decide di darsi alla scrittura e crearsi tanti mondi a sua immagine e somiglianza.
COSA NE PENSANO LE CURLY HAIRED READERS?
Come possiamo non essere completamente attratte quando un'autrice emergente, e per di più italiana, si lancia in un romanzo distopico come Yosemite Clark? Siamo curiosissime di leggerlo! Lo consigliamo vivamente a tutti gli appassionati del genere!Per quanto riguarda Fino alla fine della rete ci incuriosisce molto, soprattutto per il rapporto letteratura-tecnologia che instaura. Speriamo sia all'altezza delle nostre aspettative!
ESTRATTO DAL CAPITOLO 1
Io
adoravo mia nonna. Era sempre stata una vecchietta arzilla e in gamba per la
sua età. Era stata come un’amica per me. Il rapporto che avevo con lei lo
consideravo speciale e unico nel suo genere. Abbiamo passato un sacco di bei
momenti insieme.
Come
quella volta che mi aiutò a chiedere di uscire ad una ragazza.
Eravamo
al centro commerciale, era una calda mattina di inizio estate, e nonna
insistette per andare a comprare la frutta fresca.
Stavamo tranquillamente camminando quando
notai una ragazza non troppo lontana da noi che stava parlando con delle sue
amiche. Aveva il naso a patata e le lentiggini sparse su tutta la faccia.
Detti
un colpo col braccio a mia nonna, e le indicai la ragazza con un cenno del
capo. Lei la guardò con fare malizioso e
mi strizzò l’occhio, sapeva già cosa doveva fare, non c’era bisogno nemmeno di
dirglielo. Era un giochetto che facevamo sempre, e ci divertiva un mondo.
Si avvicinò a lei e al suo gruppo di amiche.
Aveva una camminata ondeggiante, oscillava da destra verso sinistra. Quando le
fu vicina fece finta di inciampare, e cadde fra le braccia della ragazza, la
quale ovviamente la sorresse.
<<Signora,
sta bene?>> le chiese con fare allarmato.
<<Ma
certo>> rispose mia nonna staccandosi dal suo corpo. Si stirò le pieghe
della gonna. <<Adesso, se vuoi scusarmi, devo andare dalle mie amichette.
Dobbiamo farci belle per la festa di stasera.>>
La
ragazza arricciò il suo naso a patata. <<Che festa?>>
Mia
nonna la guardò sorpresa, con gli occhi spalancati. <<Ma come, tu non ci
sarai stasera in discoteca? Eppure sono più grande di te solo di qualche
anno!>>
<<Come
qualche anno?>>
<<Esatto!
Io ne ho diciotto, tu quanti ne hai, mia cara?>>
La
ragazza sembrava chiaramente turbata dalla donna che aveva davanti a lei, il suo
disagio era evidente. Tutto secondo i piani.
Così
entrai in scena io. Mi avvicinai a loro correndo. <<Nonna, sei scappata
di nuovo!>> Afferrai mia nonna per un braccio, cercando di riprodurre un
tono di voce arrabbiato. Poi mi rivolsi alla ragazza. <<Scusami tanto, a
mia nonna manca qualche rotella, e avvolte non riesco a starle dietro.>>
<<E’
proprio un bravo ragazzo>> intervenne la vecchietta. <<Mi sta
sempre dietro con fare apprensivo. È così premuroso! Non dovresti lasciartelo
scappare.>>
A
quel punto le amiche della ragazza la chiamarono, dovevano andarsene. Lei frugò
nella borsa in cerca di qualcosa. Estrasse un pezzo di carta e me lo porse
sorridendo timidamente:
<<Questo
è il mio numero, chiamami qualche volta.>>
Poi
si girò, e corse dalle sue amiche, le quali cominciarono a farle un sacco di
domande. Lei probabilmente le raccontò tutto l’accaduto, visto che si voltarono
parecchie volte a guardarmi.
<<Mi
devi un favore>> disse seria mia nonna squadrandomi dal basso verso
l’alto.
<<Te
ne devo un milione.>>
Mi
prese sotto braccio, ed insieme, ci incamminammo verso l’uscita del centro
commerciale.
<<Adesso
muoviamoci, oggi è il grande giorno.>>
Annuii
soltanto, troppo emozionato per pronunciare qualunque tipo di parola. Quel
girono mi sarei diplomato, mancava davvero poco ormai. Dopo quattro anni il
liceo stava per finire. Non mi ci ero trovato tanto male, l’avevo odiato nella
giusta misura in cui uno studente medio odia la scuola. Ad ogni modo ero felice
di andarmene al college. Ero stato ammesso alla facoltà di medicina, e non
vedevo l’ora di iniziarla. Non stavo più nella pelle all’idea di avere la tanto
attesa libertà.
La
nostra andatura aumentò sempre di più, e rientrammo a casa in tempo per la
colazione. Da fuori riuscivo a sentire l’odore delle frittelle, e mi venne un
languirono in bocca.
Entrammo
dalla porta sul retro e ci ritrovammo in cucina. Mio padre era seduto al
tavolino a leggere il giornale, e mia madre ai fornelli, la quale non appena
sentì il rumore della porta che si apriva, si voltò a guardarmi con un enorme
sorriso. Posò il piatto di frittelle in mano e mi si avvicinò, mi mise le mani
sulle spalle, e mi abbracciò forte.
<<Ciao
Yosemite! Allora, sei emozionato?>>
<<Ovvio
che lo è>> rispose mio padre per me. <<Dopotutto gli addebiteranno
il Difetto questo pomeriggio.>>
Eh
già, ad ogni alunno, raggiunta la maggiore età e di conseguenza il diploma
scolastico, durante la cerimonia di diplomi viene assegnato il proprio Difetto,
il proprio tratto caratteristico che lo contraddistingue da tutti gli altri. Il
Difetto può essere caratteriale, fisico o mentale. Più il Difetto è esplicito
ed evidente, più puoi aspirare ad ottenere ottimi traguardi nella vita. Questa
decisione fu presa moltissimo tempo fa, il nonno del mio bisnonno non era
nemmeno ancora nato. Prima di questa nuova Era le persone venivano giudicate
perché non conformi alla massa. Gli omosessuali, le persone di colore, gli
stranieri, chi credeva in una diversa religione, venivano considerati la
feccia, e trattati come immondizia. Erano costretti a vivere una vita ricca di
derisioni, umiliazioni, si sentivano inferiori agli altri, non certo perché lo
fossero, ma perché venivano portati a crederlo. Se non eri come gli altri
dicevano che tu dovevi essere, allora potevi scordarti di assaporare la
felicità. Fortunatamente il mondo è cambiato da allora, le persone si sono rese
conto dei proprio errori e ci hanno posto rimedio. Adesso essere diversi è un dono, avere diversità è un miracolo.
Io
non sapevo che Difetto mi avrebbero potuto assegnare. Spesso mi guardavo allo
specchio ma non notavo niente di particolare. Scrollai le spalle, non era
compito mio decidermi il Difetto, ma dei miei professori, i quali mi avevano
osservato per quattro anni.
Mia
madre mi diede una scrollata alla spalla, facendomi tornare alla realtà.
<<Tesoro, non devi essere nervoso, ci siamo passati tutti.>>
Mia
mamma aveva delle orecchie enormi, molto più grosse del suo naso. Il suo
Difetto era Dumbo, mia madre si chiamava Jenna Dumbo. Era molto fiera del
Difetto che le avevano assegnato, infatti portava sempre una coda di cavallo, o
comunque un’acconciatura che le lasciava il collo e le orecchie scoperte. In
più si metteva degli enormi orecchini vistosi, diceva che in questo modo
l’attenzione si concentrava di più sulle orecchie.
Le
sorrido e mi metto a sedere. <<Hai ragione mamma, ma rimane comunque il
giorno più importante della mia vita. Papà, mi passeresti il sale per
favore?>>
Mio
padre era un grande imbranato, non riusciva a tenere un oggetto in mano per più
di due minuti che gli crollava per la terra. Inciampava sempre e sbatteva
contro gli spigoli dei mobili. Non aveva problemi di vista, era semplicemente
più sbadato rispetto alle altre persone. Un giorno mamma ebbe un’accesa
discussione con il sindaco. Lei voleva mettere dei rinforzi in gomma piuma agli
spigoli del tavolo, essendo un periodo stressante per papà, cosa che lo rendeva
ancora più distratto e impacciato. Ma il sindaco negò l’approvazione senza
pensarci su due volte. Disse che non sarebbe stato giusto nei confronti del
Difetto di mio padre minimizzarlo in questo modo. Ma io so che mamma lo faceva
solo a fin di bene.
Mio
padre mi mise quattro frittelle nel piatto, e mi versò il succo di frutta nel
bicchiere. <<Ricordo ancora il mio giorno di diploma, ero nervoso come
non mai. E indovina un po’? mentre camminavo verso il palco dove mi avrebbero
diplomato inciampai e mi ruppi il naso!>>
Scoppiai
a ridere, potevo immaginarmelo nella mia testa che si pestava le stringhe e
capitombolava per la terra.
Mamma era piegata in due dalle risate:
<<Me
lo ricordo! Dovette correre subito al pronto soccorso, e il Difetto gli fu
assegnato due giorni dopo rispetto agli altri alunni.>>
Mia
nonna, la quale era seduta accanto a papà, gli diede qualche pacca sulla
spalla. Poi allungò una mano e mi fregò una frittella.
<<Il
tuo Difetto è che non sei abbastanza sveglio!>> mi rimproverò, mentre si
sgranocchiava soddisfatta la sua colazione.
<<Lascialo
in pace mamma, è già stressato di suo>> la ammonì mio padre.
Mamma
tornò in cucina, non mi ero nemmeno accorto che se ne fosse andata, con in mano
la mia tunica rossa da diplomando. Corse verso di me con il vestito sempre nel
cellofan, e me lo agitò davanti agli occhi.
<<Avanti
tesoro, è il momento che tu lo indossi.>>
Presi
il cellofan dalle braccia di mamma, lo appoggiai sul tavolo e provai ad
aprirlo. Papà corse in camera sua a prendere la giacca e la cravatta. Tornò in
cucina e si mise davanti allo specchio. Legò la stoffa intorno al collo, e
provò a farci il nodo, senza ovviamente riuscirci.
Mamma,
che aveva in una mano un rossetto e nell’altra uno specchietto da borsa, alzò
gli occhi al cielo non appena vide il disastro che stava combinando mio padre,
e posò i trucchi sul tavolo.
<<Imparerai
mai a farti il nodo alla cravatta?>> sbottò avvicinandosi a lui.
<<E
tu smetterai mai di indossare quegli orecchini che pesano più di te?>>
Anche
se le discussioni sono all’ordine del giorno, siamo sempre stati una famiglia
felice. Da quando il nonno morì, nonna era venuta a vivere con noi, ed è una
delle cose migliori che ci potesse capitare. Non era mai stata un peso o un
obbligo, anzi, ci aveva sempre aiutati nei momenti di crisi.
Anche
alle famiglie viene assegnato un Difetto. Noi siamo la famiglia Monopoli,
perché ogni domenica sera, cascasse il mondo, noi siamo riuniti al tavolino a
giocare a quel gioco da tavola. Spesso urliamo e ci infamiamo, quando entrambi
crediamo di avere ragione, e questo porta molto spesso lamentele da parte dei
vicini. Quando un giorno avrei moglie e figli anche noi saremmo stati una
famiglia, e ci avrebbero assegnato un Difetto a seconda delle nostre abitudini.
Mi
infilai la tunica rossa e anche il cappello in testa.
<<Tutto
questo è imbarazzante>> sospirai verso mia nonna, la quale si stava
avvicinando a me.
<<Guarda
che il cordino lo devi mettere a destra.>>
Lo
spostai e poi mi voltai verso i miei genitori. La diatriba per la cravatta si
era ufficialmente conclusa, ed entrambi si avvicinarono a me, sorridendomi.
<<Siamo
orgogliosi di te, lo sai questo?>> chiese mia mamma.
<<Esatto.
Non importa quale Difetto ti assegneranno, per noi sarai sempre il nostro amato
figlio.>>
<<Oh,
vi prego, risparmiatemi questi discorsi melensi!>>
<<Assolutamente
no.>> Papà scosse la testa. <<E quando avrai dei figli, anche tu
farai i cosiddetti “discorsi melensi”>>
Prese
dal piano cottura un mazzo di chiavi e aprì la porta sul retro. La nonna e la
mamma furono le prime ad uscire, poi fu il mio turno.
<<Scordatelo
papà, io non lo farò mai>> ribattei.
Mio
padre si avvicinò allo sportello del guidatore e lo aprì. <<Ne
riparleremo più avanti, figliolo.>>
Salii
al posto del passeggero, mi allacciai la cintura, e mentre mio padre guidava
verso la scuola, assaporai i miei ultimi istanti di adolescenza. Nel giro di
poche ore tutto sarebbe cambiato, il liceo sarebbe finito, io avrei avuto il
mio Difetto, e alla fine dell’estate me ne sarei andato alla facoltà di
medicina. Tutto mi sembrava così nuovo ed eccitante.
Arrivammo
a scuola, che era appestata di madri, padri, parenti e diplomandi. C’era chi
piangeva, chi si abbracciava con le proprie amiche del cuore, chi scattava foto
ricordo.
<<Facciamone
una anche noi!>> gridò mamma non appena vide un’altra famiglia davanti
all’obbiettivo.
Quella
volta io non fui il solo ad alzare gli occhi al cielo, anche mio padre si trovò
d’accordo con me.
<<Andiamo
Jenna, guarda in che condizioni sono!>>
<<Tu
sei sempre in pessimo stato>> ribatté mia nonna, abbottonandosi il
cardigan. <<Ma Yosemite non sarà mai più vestito in questo modo, perciò
dobbiamo immortalare il momento.>>
Girai
la testa e mi affacciai verso i sedili posteriori. <<Non è vero nonna, ne
indosserò uno simile alla laurea.>>
Papà
parcheggiò la macchina, e le donne della famiglia ci trascinarono vicino al
fotografo. La mia espressione contrariata era più che evidente.
Nonna
insistette per fare una marea di foto, sembrava volesse appenderle per tutta la
città, o fare un servizio fotografico per una campagna pubblicitaria. Ad un
certo punto il fotografo si stancò di noi e ci cacciò via, mia madre ebbe pure
da obiettare. Guardammo le foto che avevamo scattato, a me sembravano tutte
uguali, ma mamma era convinta di trovarci delle differenze abissali.
<<Avanti,
tesoro>> mi esortò. <<Firmacele.>>
<<Ma
non si dovrebbero firmare solo gli annuari?>>
Lo
sguardo minaccioso che mi lanciò mi fece zittire all’istante, così le presi la
penna dalle mani e scrissi una dedica su ognuna delle foto.
La
vicepreside finalmente arrivò, interrompendo tutti quei momenti mielosi in cui
ti strizzano le guance e ti riempiono di complimenti su quanto tu sia cresciuto
in quegli anni.
Ci
avviammo nella palestra, dove si sarebbe tenuta la cerimonia di diplomi. Mi
staccai dalla mia famiglia, e mi sedetti nelle prime file riservate ai
maturandi accanto ai miei amici. Un po’ mi dispiaceva lasciarli, molti però
sarebbero rimasti in città anche dopo l’estate, quindi avrei potuto vederli nei
periodi in cui non avevo da studiare.
In
palestra c’era un gran chiacchiericcio, gli studenti erano emozionatissimi e
non facevano altro che tirare a indovinare quale Difetto li avrebbero
assegnato, e i genitori nelle file più dietro discutevano su quanto i loro
figli fossero meglio degli altri.
Poi
entrarono la vicepreside e il preside, e tutti si chetarono. Il preside era una
persona solare, con il colorito della pelle sempre abbronzato e gli occhi
opachi. La vicepreside invece era un’acida donna che aveva sempre un
atteggiamento risoluto.
Il
preside si avvicinò al leggio, e avvicinò alla bocca il microfono:
<<Benvenuti,
studenti e parenti del liceo McClain, vi do il benvenuto alla cerimonia dei
diplomanti di quest’anno.>>
Un
grido di gioia si levò tra le mamme nel pubblico.
<<E’
sempre un vero onore vedere i propri figli crescere e diventare adulti, ed è
per me e per la vicepreside Rospo un piacere segnare il loro passaggio all’età
adulta.>>
La
vicepreside non si chiamava certo Rospo perché era una brutta donna, anzi aveva
molti ammiratori, ma perché rispondeva sempre acidamente a chiunque.
<<Oggi
i vostri figli riceveranno il loro Difetto, ciò che li diversifica, ciò che li
rende speciali. Perché noi non accettiamo uguaglianza, né somiglianza, ognuno
di noi deve essere unico nel suo genere. Ogni forma di auto conformismo verrà
punita in modo imparziale.>>
Un
giorno a scuola ci parlarono che un tempo esistevano movimenti unitari come le mode, cose che vennero spazzate via,
poiché ogni persona deve avere il proprio gusto personale differente dagli
altri, e nessuno può dirgli come si deve vestire. A scuola prendevano questa
regola della diversità molto scrupolosamente, una volta espulsero due ragazzi
per aver indossato la stessa maglietta lo stesso giorno. Mi dispiacque molto
per loro.
<<Senza
queste idee unitarie il mondo è un posto migliore. Ma mettiamo da parte questi
discorsi inutili e passiamo subito alla cerimonia dei diplomi. Il primo nome
sulla lista è Jorge, vieni avanti figliolo!>>
Sentii
i parenti di Jorge applaudire con orgoglio. Non avevo mai fatto troppa amicizia
con lui, ci eravamo semplicemente scambiati qualche parola qua e là ma nulla di
ché, ad ogni modo mi sembrava un ragazzo simpatico.
Si
alzò dalla sedia, si sistemò gli occhiali sul naso, e si avvicinò con andatura
ondulante verso il palco. La tunica gli strusciava in terra, evidentemente i
genitori avevano sbagliato ad ordinarla. Salì i gradini e si ritrovò sul palco.
Si mise alla destra del preside, il quale ricevette dalla vicepreside Rospo una
pergamena, rilegata da un fiocchetto rosso.
Quando
la vide Jorge trattenne il fiato per qualche secondo, potevo capire la sua
tensione, lì dentro c’era la parola che lo avrebbe definito per tutta la vita.
Il
preside slegò il laccio rosso, e aprì la pergamena sempre di più, fino a che
non fu totalmente distesa. Appena lesse il Difetto, fece una smorfia.
<<Prima
ci terrei a farvi una premessa. Il vostro amico qui presente Jorge ha sempre
amato con grande passione un cantante che va molto ultimamente, avete presente
Paul?>>
La
folla rispose con un segno di assenso.
<<Ebbene,
questo ragazzo è un suo grande fan, forse il più grande. Perciò, è un onore per
me informarvi che il Difetto di Jorge sarà Pauler!>>
Jorge
si portò la mano davanti alla bocca, le lacrime agli occhi. Gli tremavano le
ginocchia. Sbuffai, con un Difetto del genere avrebbe fatto strada nella vita.
Tornassi indietro diventerei anch’io un enorme fan di un cantante o un attore
qualsiasi a caso.
Jorge
si avviò verso il centro del palco, sorridente, e si spostò il cordino da
destra verso sinistra. Il preside gli si avvicinò con una lamina di ferro in
mano. L’Etichetta. Una volta diplomato, e assegnato il Difetto, ti
etichettavano, cioè ti cicatrizzavano sopra la pelle nome e Difetto, così che
dovunque andassi tu potessi essere subito catalogato.
Jorge
trattenne un’espressione dolorante mentre l’apparecchio incollava l’Etichetta
sul suo polso sinistro. Poi si voltò verso il pubblico con un enorme sorriso.
<<Sono Jorge Pauler, e sono fiero di esserlo!>>
Quella
frase testimoniava che riconoscevi il tuo Difetto ufficialmente, e promettevi
di impegnarti ad onorarlo per ogni giorno fino alla fine dei tuoi giorni.
I
genitori saltavano sulle sedie, anche loro commossi dal proprio figlio. Mi
rannicchiai nella sedia, avrei anch’io soddisfatto le esigenze dei miei
parenti? O sarei stato un fallimento?
La
cerimonia trascorreva lenta e monotona. All’inizio la tradizione del Difetto mi
affascinava, ed ero curioso di sapere cosa sarebbe toccato ai miei compagni, ma
dopo un po’ mi stufai. Volevo solo ricevere il mio attestato e tornarmene a
casa, non ne potevo più della solarità del preside.
Ad
un certo punto qualcosa catturò la mia attenzione. Il preside chiamò il nome di
Tiffany. Quando sentii pronunciare il suo nome mi tirai su a sedere, e tirai il
collo per vedere meglio. Tutta la platea in quel momento si zittì e rimase in
ascolto di quello che sarebbe successo.
I
suoi genitori si presero la mano, e con gli occhi chiusi, pregavano ogni forma
di Dio per risparmiare la loro piccolina.
Tiffany
era una ragazza alta, magra, bionda, con gli occhi azzurro cielo, qualche
lentiggine sparsa per il viso, denti dritti, un naso piccolo, una bocca
bellissima. Era Perfetta. Era questo il problema. Non aveva difetti, e, come
sentivo sempre dire alla televisione “la
perfezione è reato”.
Quando
sentì il suo nome Tiffany sbiancò, e si avviò anche lei verso il palco tremante.
Per la prima volta lessi nello sguardo della vicepreside un po’ di apprensione,
la situazione era grave e tutti noi lo sapevamo. Se Tiffany fosse risultata
inadempiente alle nostre leggi, e quindi una ragazza Perfetta, non si sarebbe
mai diplomata, e sarebbe andata in una di quelle tante discariche dove vivono i
reietti, e cioè tutti i Perfetti.
Il
solo pensare a loro mi fece venire i brividi, non potevo immaginare di vivere
nel loro corpo, di guardarmi allo specchio ogni giorno e non trovare nulla di
sbagliato, sarebbe stato un incubo.
Tiffany
stringeva forte i lembi della tunica, si mordicchiava con violenza il labbro,
le si vedeva il sangue scendere sul mento.
Il
preside prese l’attestato e sfilò il nastro rosso. La folla si zittì per
qualche minuto, il tempo sembrò fermarsi. Il preside guardò l’attestato e
sospirò: <<Mi dispiace molto…>>
A
Tiffany tremarono le gambe, si accasciò in terra con le lacrime agli occhi. Si
ficcò le mani tra i capelli e cominciò a tirarli, la faccia rossa e corrugata
dal pianto, il labbro ormai spaccato dai morsi che ci si era data.
Urlava,
sbraitava. Due guardie sortirono da dietro le quinte e si avvicinarono a lei,
la quale però si gettò sul preside, e lo afferrò per il colletto.
<<La
prego mi salvi, non lasci che mi accada questo!>> lo supplicò con la bava
alla bocca, ma i due energumeni la caricarono di peso e la portarono oltre la
palestra.
Non
avrei più rivisto quella ragazza, la sua vita sarebbe stata condannata per
sempre. Mi si gelò in sangue nelle vene, provai una gran pena per lei, mi
sarebbe piaciuto poterla aiutare, ma sapevo che non sarebbe stato possibile.
Il
preside si passò una mano sulla fronte, emotivamente provato. I genitori di
Tiffany si stringevano l’uno all’altra, nel vano tentativo di consolarsi. Mia
nonna allungò un braccio verso di loro e gli diede qualche pacca sulla spalla,
in segno di conforto.
<<Mi
dispiace molto per quella povera ragazza>> annunciò il preside, ancora
scosso. <<Ma la cerimonia dei diplomi deve continuare, ci sono ancora un
sacco di studenti da far salire qui sul palco. Il prossimo della lista è…
Yosemite Clark!>>
Sì,
ho un secondo nome, ero l’unico a scuola. Mia mamma voleva chiamarmi Yosemite,
mio padre Clark. Litigarono per tutta la durata della gravidanza il nome del
proprio figlio, e quando ormai ero nato, non essendosi ancora trovati
d’accordo, mi diedero entrambi i nomi.
Gli
sguardi di tutti si puntarono su di me, e io volli sparire. Non avevo ancora
realizzato di essere a un passo dal momento più importante della mia vita, mi sembrava
tutto così surreale, impossibile.
Deglutii
e mi alzai dalla sedia. Nell’alzarmi voltai la testa verso le sedie dietro di
me e vidi i miei parenti con un enorme sorriso che mi lanciavano segni di
incoraggiamento.
Mi
feci strada tra i ragazzi seduti nei posti accanto a me, tutti che mi dicevano
qualche parolina di supporto, ma ciò non serviva a calmare il mio animo. La
scena di Tiffany mi aveva terrorizzato. Ero certo di non essere un ragazzo
Perfetto, ma il timore di fallire e deludere i miei montava sempre di più.
Salii
sul palco con i pugni stretti. Mentre passai dietro al preside per andare alla
sua destra, lui mi diede una pacca sulla spalla.
<<Non
ti preoccupare>> disse solo a me, lontano dal microfono, perciò nessun
altro sentì.
Divaricai
leggermente le gambe e provai a guardare fisso davanti a me come mi avevano
detto di fare, ma non ci riuscii, era più forte di me, io dovevo guardare cosa
stava facendo il preside, perché ci mettesse così tanto a dirmi il mio Difetto.
Tolse
il nastro rosso. Quel movimento mi sembrava fatto a rallentatore, come se il
tempo non passasse mai. Picchiettai il piede contro il legno del palco,
impaziente come non lo ero mai stato prima di allora.
Il
preside finalmente lasciò cadere il nastro rosso a terra, poi aprì la pergamena
e lesse. I miei occhi e la mia bocca si spalancarono, non ce la facevo più,
tutta quella tensione mi stava uccidendo, avrei voluto urlare dal nervoso che
avevo addosso.
Il
preside distese la pergamena sul leggio, mi sporsi ma non riuscii a leggere
niente. Dovetti ricompormi e aspettare.
<<Da
questo momento in poi tu sarai per tutti Yosemite Clark… Secondo Nome!>>
Lo
guardai sconcertato. Sul serio? Tutto qui? La cosa che mi differenziava da
tutti gli altri, quella che doveva rendermi speciale, era semplicemente il mio
secondo nome? Doveva essersi sbagliato, di sicuro c’era un errore, non potevano
darmi un Difetto così banale e insulso.
Il
preside mi porse la pergamena, e io quasi gliela strappai di mano. La aprii e
la guardai. Nessuno errore, aveva letto bene. Mi venne voglia di strappare il
foglio davanti a tutti, di mettermi ad urlare come aveva fatto Tiffany, ma non
volevo dare spettacolo. Così aspettai
che il preside mi si avvicinasse per etichettarmi. Mi strinse la mano sinistra
e girò il palmo verso l’alto. Ci appoggiò sopra la lamina di metallo, potevo
vederla chiaramente: l’incisione era chiara, di una bella calligrafia.
Iniziai
a farfugliare qualcosa, madido di sudore. <<Ci deve essere un errore, non
potete darmi un->>
<<So
che questa potrà sembrarti una tragedia>> mi disse accostando la sua
bocca al mio orecchio, e il fatto di sentirlo per la prima volta in quattro
anni serio e non gioviale mi fece trasalire. <<Ma qualche minuto fa una
ragazza ha praticamente perso la sua vita, perciò pensa a chi sta peggio di
te.>>
Dopodiché
azionò la macchina e la passò sul bordo dell’Etichetta. Bruciava da morire,
volevo allontanare il braccio ma lui aveva una presa estremamente forzuta.
<<Sono Yosemite Clark Secondo Nome, e
sono fiero di esserlo>> lo dissi con pochissimo entusiasmo, ma anche se
mi sforzai, non riuscii ad esserne contento, non ero affatto fiero del mio
Difetto.
Guardai
i miei genitori e mia nonna. Sembravano contenti, questo mio grande fallimento
non sembrava averli turbati poi più di tanto. O forse si stavano solo fingendo
felici davanti agli altri.
Dopo
di me si diplomarono un sacco di altri ragazzi, ma io non prestai attenzione,
me ne rimasi seduto sulla sedia a pensare che cosa c’era di sbagliato in me. E
mi venne in mente una lista lunghissima di cose.
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